martedì 30 settembre 2014

Cogli la (seconda) mela


Conversazione con Elisa Biason, esperta di agricoltura e orticultura (biologica e non) e membro dell'associazione "Piantiamola"




Tu tieni corsi di orticultura biologica.

Sì, non solo biologica. Biologica identifica già un certo modo di fare agricoltura, ma i modi di agricoltura sono infiniti. Io provo a fare dei piccoli racconti su qualche cosa che si può fare con le persone che incontro. Ognuno poi trova il suo modo...

E come sei arrivata a questa professione?

Non è l'unica cosa che faccio. Questa è più una passione... Innanzitutto cerco di conoscere persone interessate e poi ho capito che si è perso molto di quello che era il sapere contadino. Io stessa ho imparato molto da mio nonno...

Una cosa che mi ha colpito del tuo corso è stato come hai affrontato l'argomento dei fertilizzanti. Dopo la seconda guerra mondiale c'era il problema di come smaltire molti prodotti chimici...

Questa idea è nata proprio al termine della seconda guerra mondiale – si arrivava da un periodo di grande fame e povertà – e c'erano tutti questi elementi esplosivi di derivazione bellica che sono gli stessi elementi della nutrizione vegetale: il fosforo, il potassio e l'azoto, ovvero i tre elementi principali utili alle piante per crescere, nonché i principali costituenti delle bombe. Tant'è che se uno avesse la bizzarra idea di costruire artigianalmente una bomba, lo potrebbe fare utilizzando i fertilizzanti. Per questo l'acquisto del fertilizzante è vincolato, analogamente a quello dei pesticidi, che può avvenire solo in possesso di un patentino.
Di fatto, i vegetali vengono alimentati non pensando di aumentare la fertilità del suolo ma semplicemente dando alla pianta direttamente ciò di cui ha bisogno.

Dal tuo punto di vista c'è davvero bisogno di tutti questi prodotti o si è trattato di un caso “fortuito” per l'industria chimica di allora?

C'è bisogno a seconda dello scopo che si ha. Se uno fa agricoltura industriale ce n'è bisogno perché siamo al di fuori dei cicli naturali, da quello che dovrebbe essere la quota normalmente prodotta da una pianta. Se noi selezioniamo vegetali che devono produrre tantissimo, il terreno non è in grado di poter fornire questi elementi: allora è chiaro che vanno aggiunti. Altrimenti, le piante sono autonome: sono presenti da millenni, autoselezionate dal processo evolutivo, e sono in grado di crescere ovunque in base al territorio. Nel momento in cui vogliamo portare una pianta che non è della zona, o farla produrre molto di più rispetto a ciò che sarebbe la normalità, ci vuole un aiuto, e questo aiuto è l'elemento chimico.

Invece se ogni persona si prendesse cura di un pezzo di terra per il suo fabbisogno – anche vivendo in città – questo sarebbe possibile, e auspicabile, senza utilizzo di sostanze esterne, se non la sapienza contadina?

Secondo me sì. È una pratica che io auguro alle persone. Ed è proprio un dovere farlo senza utilizzo della chimica. Tutto ciò che noi mettiamo di chimico nel terreno in qualche modo esce poi dal nostro rubinetto, quindi va in falda e ce lo beviamo. L'azoto, ovvero l'elemento chimico che promuove le parti verdi della pianta, è dilavabile nell'acqua. Se è in eccesso nel terreno davvero uscirà dal nostro rubinetto, e bisogna ricordare che è una sostanza precursore di molti agenti cancerogeni.
Chiunque abbia un piccolo spazio di terra dovrebbe fare il compost, e riutilizzare gli scarti organici per ridarle fertilità. Altrimenti creiamo dell'immondizia che va smaltita con un nuovo dispendio energetico, quando invece l'energia del nostro scarto può tornare al suolo e ricominciare il ciclo. Non dobbiamo essere noi a spezzarlo con l'idea che è immondizia, perché non è corretto, tanto è vero che in natura questo avviene.

Nei casi estremi, anche il balcone di casa va bene?

Sì, ci sono addirittura persone che fanno il compost domestico utilizzando o dei vasi di terracotta o delle strutture molto porose che garantiscono uno scambio d'ossigeno. Quindi non si crea puzza né marciume, ma il terriccio con cui poi si fanno gli invasi. È una pratica un po' impegnativa, però da belle soddisfazioni.

In un mondo che usasse criteri naturali per la coltivazione delle piante – senza produzione industriale su larga scala, uso di OGM, trapianto di piante non autoctone – questo rischierebbe di riprodurre condizioni di epoche precedenti all'attuale, in cui la carestia è un rischio possibile? E se sì, allora perché scegliere l'agricoltura biologica?

L'agricoltura è soggetta a ciò che avviene in atmosfera, a ciò che decide il clima. Da questo punto di vista possono esserci sempre dei danni. Ma per quanto riguarda la quantità prodotta è stato calcolato che se anche tutte le produzioni a livello mondiale fossero biologiche, comunque ci sarebbe un eccesso. L'agricoltura biologica rispetto a quella industriale produce un 20% in meno. Nonostante questo, con una produzione agricola all'80%, comunque ci sarebbero dei surplus produttivi. Il problema è più un problema di distribuzione delle risorse. Ovviamente la proposta dell'OGM è molto forte. Il mio personalissimo pensiero è quello di non vedere nell'OGM una soluzione al problema vero, cioè come vengono distribuite per scelta le risorse. Nel momento in cui noi andiamo a importare nei paesi che hanno suoli poveri coltivazioni energetiche e togliamo la possibilità alla gente del luogo di avere il proprio orticello e le proprie abitudini alimentari e di coltivazione – quello che attualmente si chiama landgrabbing (accaparramento delle terre ai fini di produzione energetica, che è l'altro argomento che vede nei tempi moderni l'agricoltura mischiata con la produzione industriale), ecco che andiamo a togliere anche a loro, così come abbiamo già fatto a noi stessi in Europa, la grande capacità di poter coltivare. In Europa ormai è normale che un cittadino non abbia la possibilità di avere accesso alla terra, né abbia più le conoscenze per coltivarla. Se questa cosa succede anche alla gente dei villaggi in Africa piuttosto che in Asia, è quello che crea carestia, non la scelta o meno di un metodo biologico.

Ricordo che a scuola – non troppo tempo fa ma neanche ieri! – si studiava che quando l'uomo aveva imparato a coltivare la terra, aveva imparato anche a lasciare a rotazione una parte del campo a riposo. Ma questa cosa avviene ancora?

Si faceva perché si riformasse la parte di fertilità che la pianta aveva consumato. Oggi questo momento viene bypassato: possiamo permetterci di non aspettare perché siamo in grado di fornire alla pianta quella sostanza che la fa crescere comunque.

Ciò rischia di portare la terra a una futura sterilità?

Sì. Oltre al fatto di immettere nell'atmosfera moltissima anidride carbonica. Il protocollo di Kyoto doveva regolamentare l'immissione industriale di CO2 in atmosfera, ma in realtà è l'agricoltura che detiene la grande possibilità di bloccare nel suolo il carbonio. Se noi consumiamo la sostanza organica della terra, ecco che mandiamo in atmosfera CO2, paradossalmente più dell'industria.

Questa cosa non si sente dire molto spesso. Si parla del traffico, delle fabbriche, perfino dell'allevamento, ma dell'agricoltura no.

Viene detto molto poco e di solito solo durante momenti dedicati agli addetti ai lavori. Altrimenti dovremmo smetterla di utilizzare le foreste amazzoniche come le stiamo utilizzando, ad esempio. Perciò non si diffonde molto questa notizia. Eppure dal punto di vista delle superfici e delle quantità di biomasse che detengono il carbonio è l'agricoltura ad avere le responsabilità maggiori.

Invece i nostri nonni queste cose le sapevano già...

Mio nonno non mi dice “se fai questo liberi anidride carbonica nell'aria...”, ma fa un'agricoltura che oggi verrebbe definita sostenibile e all'avanguardia. Questo è tutto nel suo sapere, lui che è nato contadino ed è così a 93 anni. Quindi abbiamo tutto da imparare da loro. Finché qualcuno ce lo può dire, dobbiamo approfittarne!

Vuoi aggiungere qualcosa?

Anche i bambini, le famiglie, possono fare delle esperienze di avvicinamento alla terra, per essere più consapevoli. Ci sono occasioni anche nelle città. Torino sta cominciando ad essere abbastanza viva da questo punto di vista, Bologna anche, si stanno creando delle reti di orti urbani, occasioni di viaggio in cui si va a visitare una città per vederne non solo i musei e i monumenti, ma anche quello che la gente produce. Oppure ci sono associazioni, come la mia (“Piantiamola”), che offre la possibilità di fare dei lavori insieme. Aderiamo alla rete del wwoofing, un modo per fare turismo: si va in un'azienda agricola a fare dei lavori in campagna con qualcuno che spiega perché sceglie di lavorare in un determinato modo e così si fa un'esperienza umana e allo stesso tempo legata alla terra.


Per saperne di più:

coltivareilcambiamento.blogspot.it

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