Conversazione con Elisa Biason, esperta di agricoltura e orticultura (biologica e non) e membro dell'associazione "Piantiamola"
Tu tieni
corsi di orticultura biologica.
Sì,
non solo biologica. Biologica identifica già un certo modo di fare
agricoltura, ma i modi di agricoltura sono infiniti. Io provo a fare
dei piccoli racconti su qualche cosa che si può fare con le persone
che incontro. Ognuno poi trova il suo modo...
E come sei
arrivata a questa professione?
Non
è l'unica cosa che faccio. Questa è più una passione...
Innanzitutto cerco di conoscere persone interessate e poi ho capito
che si è perso molto di quello che era il sapere contadino. Io
stessa ho imparato molto da mio nonno...
Una cosa che
mi ha colpito del tuo corso è stato come hai affrontato l'argomento
dei fertilizzanti. Dopo la seconda guerra mondiale c'era il problema
di come smaltire molti prodotti chimici...
Questa
idea è nata proprio al termine della seconda guerra mondiale – si
arrivava da un periodo di grande fame e povertà – e c'erano tutti
questi elementi esplosivi di derivazione bellica che sono gli stessi
elementi della nutrizione vegetale: il fosforo, il potassio e
l'azoto, ovvero i tre elementi principali utili alle piante per
crescere, nonché i principali costituenti delle bombe. Tant'è che
se uno avesse la bizzarra idea di costruire artigianalmente una
bomba, lo potrebbe fare utilizzando i fertilizzanti. Per questo
l'acquisto del fertilizzante è vincolato, analogamente a quello dei
pesticidi, che può avvenire solo in possesso di un patentino.
Di
fatto, i vegetali vengono alimentati non pensando di aumentare la
fertilità del suolo ma semplicemente dando alla pianta direttamente
ciò di cui ha bisogno.
Dal tuo punto
di vista c'è davvero bisogno di tutti questi prodotti o si è
trattato di un caso “fortuito” per l'industria chimica di allora?
C'è
bisogno a seconda dello scopo che si ha. Se uno fa agricoltura
industriale ce n'è bisogno perché siamo al di fuori dei cicli
naturali, da quello che dovrebbe essere la quota normalmente prodotta
da una pianta. Se noi selezioniamo vegetali che devono produrre
tantissimo, il terreno non è in grado di poter fornire questi
elementi: allora è chiaro che vanno aggiunti. Altrimenti, le piante
sono autonome: sono presenti da millenni, autoselezionate dal
processo evolutivo, e sono in grado di crescere ovunque in base al
territorio. Nel momento in cui vogliamo portare una pianta che non è
della zona, o farla produrre molto di più rispetto a ciò che
sarebbe la normalità, ci vuole un aiuto, e questo aiuto è
l'elemento chimico.
Invece se
ogni persona si prendesse cura di un pezzo di terra per il suo
fabbisogno – anche vivendo in città – questo sarebbe possibile,
e auspicabile, senza utilizzo di sostanze esterne, se non la sapienza
contadina?
Secondo
me sì. È una pratica che io auguro alle persone. Ed è proprio un
dovere farlo senza utilizzo della chimica. Tutto ciò che noi
mettiamo di chimico nel terreno in qualche modo esce poi dal nostro
rubinetto, quindi va in falda e ce lo beviamo. L'azoto, ovvero
l'elemento chimico che promuove le parti verdi della pianta, è
dilavabile nell'acqua. Se è in eccesso nel terreno davvero uscirà
dal nostro rubinetto, e bisogna ricordare che è una sostanza
precursore di molti agenti cancerogeni.
Chiunque
abbia un piccolo spazio di terra dovrebbe fare il compost, e
riutilizzare gli scarti organici per ridarle fertilità. Altrimenti
creiamo dell'immondizia che va smaltita con un nuovo dispendio
energetico, quando invece l'energia del nostro scarto può tornare al
suolo e ricominciare il ciclo. Non dobbiamo essere noi a spezzarlo
con l'idea che è immondizia, perché non è corretto, tanto è vero
che in natura questo avviene.
Nei casi
estremi, anche il balcone di casa va bene?
Sì,
ci sono addirittura persone che fanno il compost domestico
utilizzando o dei vasi di terracotta o delle strutture molto porose
che garantiscono uno scambio d'ossigeno. Quindi non si crea puzza né
marciume, ma il terriccio con cui poi si fanno gli invasi. È una
pratica un po' impegnativa, però da belle soddisfazioni.
In un mondo
che usasse criteri naturali per la coltivazione delle piante –
senza produzione industriale su larga scala, uso di OGM, trapianto di
piante non autoctone – questo rischierebbe di riprodurre condizioni
di epoche precedenti all'attuale, in cui la carestia è un rischio
possibile? E se sì, allora perché scegliere l'agricoltura
biologica?
L'agricoltura
è soggetta a ciò che avviene in atmosfera, a ciò che decide il
clima. Da questo punto di vista possono esserci sempre dei danni. Ma
per quanto riguarda la quantità prodotta è stato calcolato che se
anche tutte le produzioni a livello mondiale fossero biologiche,
comunque ci sarebbe un eccesso. L'agricoltura biologica rispetto a
quella industriale produce un 20% in meno. Nonostante questo, con una
produzione agricola all'80%, comunque ci sarebbero dei surplus
produttivi. Il problema è più un problema di distribuzione delle
risorse. Ovviamente la proposta dell'OGM è molto forte. Il mio
personalissimo pensiero è quello di non vedere nell'OGM una
soluzione al problema vero, cioè come vengono distribuite per scelta
le risorse. Nel momento in cui noi andiamo a importare nei paesi che
hanno suoli poveri coltivazioni energetiche e togliamo la possibilità
alla gente del luogo di avere il proprio orticello e le proprie
abitudini alimentari e di coltivazione – quello che attualmente si
chiama landgrabbing (accaparramento delle terre ai fini di produzione
energetica, che è l'altro argomento che vede nei tempi moderni
l'agricoltura mischiata con la produzione industriale), ecco che
andiamo a togliere anche a loro, così come abbiamo già fatto a noi
stessi in Europa, la grande capacità di poter coltivare. In Europa
ormai è normale che un cittadino non abbia la possibilità di avere
accesso alla terra, né abbia più le conoscenze per coltivarla. Se
questa cosa succede anche alla gente dei villaggi in Africa piuttosto
che in Asia, è quello che crea carestia, non la scelta o meno di un
metodo biologico.
Ricordo che a
scuola – non troppo tempo fa ma neanche ieri! – si studiava che
quando l'uomo aveva imparato a coltivare la terra, aveva imparato
anche a lasciare a rotazione una parte del campo a riposo. Ma questa
cosa avviene ancora?
Si
faceva perché si riformasse la parte di fertilità che la pianta
aveva consumato. Oggi questo momento viene bypassato: possiamo
permetterci di non aspettare perché siamo in grado di fornire alla
pianta quella sostanza che la fa crescere comunque.
Ciò rischia
di portare la terra a una futura sterilità?
Sì.
Oltre al fatto di immettere nell'atmosfera moltissima anidride
carbonica. Il protocollo di Kyoto doveva regolamentare l'immissione
industriale di CO2 in atmosfera, ma in realtà è l'agricoltura che
detiene la grande possibilità di bloccare nel suolo il carbonio. Se
noi consumiamo la sostanza organica della terra, ecco che mandiamo in
atmosfera CO2, paradossalmente più dell'industria.
Questa cosa
non si sente dire molto spesso. Si parla del traffico, delle
fabbriche, perfino dell'allevamento, ma dell'agricoltura no.
Viene
detto molto poco e di solito solo durante momenti dedicati agli
addetti ai lavori. Altrimenti dovremmo smetterla di utilizzare le
foreste amazzoniche come le stiamo utilizzando, ad esempio. Perciò
non si diffonde molto questa notizia. Eppure dal punto di vista delle
superfici e delle quantità di biomasse che detengono il carbonio è
l'agricoltura ad avere le responsabilità maggiori.
Invece i
nostri nonni queste cose le sapevano già...
Mio
nonno non mi dice “se fai questo liberi anidride carbonica
nell'aria...”, ma fa un'agricoltura che oggi verrebbe definita
sostenibile e all'avanguardia. Questo è tutto nel suo sapere, lui
che è nato contadino ed è così a 93 anni. Quindi abbiamo tutto da
imparare da loro. Finché qualcuno ce lo può dire, dobbiamo
approfittarne!
Vuoi
aggiungere qualcosa?
Anche
i bambini, le famiglie, possono fare delle esperienze di
avvicinamento alla terra, per essere più consapevoli. Ci sono
occasioni anche nelle città. Torino sta cominciando ad essere
abbastanza viva da questo punto di vista, Bologna anche, si stanno
creando delle reti di orti urbani, occasioni di viaggio in cui si va
a visitare una città per vederne non solo i musei e i monumenti, ma
anche quello che la gente produce. Oppure ci sono associazioni, come
la mia (“Piantiamola”), che offre la possibilità di fare dei
lavori insieme. Aderiamo alla rete del wwoofing, un modo per fare
turismo: si va in un'azienda agricola a fare dei lavori in campagna
con qualcuno che spiega perché sceglie di lavorare in un determinato
modo e così si fa un'esperienza umana e allo stesso tempo legata
alla terra.
Per
saperne di più:
coltivareilcambiamento.blogspot.it
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